"Non condivido le tue idee, ma darò la vita perché tu le posesprimere". Voltaire

12.3.07

Primum vivere

Il Presidente del Consiglio Romano Prodi alle prese personalmente con le trattative sulla nuova legge elettorale.
Sta addirittura facendo le consultazioni con i partiti politici che riceve a Palazzo Chigi.
È il risultato della quasi crisi di governo di qualche settimana fa. Sono cambiate le priorità della sua azione amministrativa. Non più l’economia ma le vicende elettoralistiche. Che meno incidono sulla quotidianità degli italiani, che meno interessano al paese e alle quali Prodi rischia di legare il suo nome ed il suo futuro politico. Ma non aveva altra scelta. Se avesse deciso di lasciare ai suoi alleati, specie diessini, il pallino della discussione, ne sarebbe venuta fuori una legge per superarlo con, magari, l’accordo più o meno tacito di nuove elezioni dopo l’approvazione del testo. Nessuna chance quindi di arrivare a fine legislatura.
Avere avocato a sé la guida delle trattative è la dimostrazione che Prodi al complotto dei diessini contro di lui crede eccome. E ne ha fatto giustamente le spese il ministro DS per i rapporti col Parlamento Vannino Chiti che finora aveva condotto le trattative. Si è sentito defraudato anche perché la sua presenza accanto a Prodi nelle consultazioni coi partiti non era inizialmente prevista. S’è impuntato, ha minacciato le dimissioni, ha chiesto sostegno al suo segretario e alla fine Prodi ha accondisceso. E Chiti ha potuto dichiarare ai giornali che si riparte dal lavoro fin qui svolto da lui. Ma è Prodi che riparte, mica lui. È Prodi che prova a dare le carte, e non D’Alema. Con l’obbiettivo, per il premier, di portare la partita alla sua conclusione naturale. Una bella sfida. Con il cinico D’Alema sempre pronto a sfilargli qualche asso dal mazzo per giocarselo in prima persona.

8.3.07

Tirati di coca

Leggo in questi giorni la proposta della Sinistra radicale italiana e di un ex ambasciatore canadese, in discussione a Roma e addirittura a Londra, di consentire al popolo afgano la coltivazione dell’oppio, la pianta da cui si ricava anche l’eroina, per produrre morfina ad uso terapeutico negli ospedali.
Attualmente è l’India che coltiva l’oppio necessario al fabbisogno mondiale. Lo fa controllando, da grande e quasi moderna democrazia qual è, la produzione. Sugli agricoltori indiani sono sempre puntati i riflettori della magistratura e degli inquirenti locali. Gli agricoltori la vendono a venticinque euro al chilo. La produzione afgana rende invece al contadino oltre cento euro al chilo. Ovviamente perché questa produzione eccede le esigenze mondiali legali e perché a comprare è il narcotraffico. Se l’Occidente vuol farsi ben volere dai contadini afgani deve inventarsi, e non da ora, qualcosa che faccia guadagnare altrettanto ai contadini.
La proposta di consentire la coltivazione d’oppio è evidente che finirebbe per ingrassare i trafficanti di droga.
A questo punto avanzo io una proposta: facciamo incontrare i talebani e la mafia: ai contadini afgani lasciamo la produzione, a Cosa Nostra affidiamo la commercializzazione. Sono certo che questa joint – venture funzionerebbe alla grande.

Programma di popolo

Il candidato sindaco del centrosinistra Leoluca Orlando ha incontrato i palermitani in un cinema della città per farsi suggerire il programma.
Mi ricorda tanto il metodo di Rita Borsellino, candidato dell’Unione alla Presidenza della Regione. È finita con Cuffaro presidente e vernacolare spotman con la coppola in testa.
Non vorrei che Orlando facesse la stessa fine della Borsellino.
Da ogni parte si è detto che lui è l’unico esponente del centrosinistra in grado di parlare a pezzi del centrodestra.
La sua sfida è certamente improba. Mi auguro che mentre lui gira per la città ad incontrare il popolo dell’Unione ci sia chi per lui gira ad incontrare palermitani di centrodestra da affascinare con il suo progetto per Palermo. E spero che lui stesso trovi il tempo per farlo.
Se non vinciamo a Palermo, il centrosinistra siciliano dovrà finalmente fare quella profonda riflessione su sé stesso che rinvia da troppo tempo.

4.3.07

Più lavoro o più pensione?

Il dibattito di queste settimane sulla riforma delle pensioni ruota anche su questi due aspetti: l’allungamento dell’età lavorativa e il rinnovo dei coefficienti di conversione.
È più semplice da comprendere la prima opzione dunque mi soffermo a spiegare in cosa consiste la seconda.
I datori di lavoro versano i contributi previdenziali ai propri dipendenti per l’intero arco della loro età lavorativa durante la quale sono stati “messi in regola”. Questi contributi annualmente subiscono una valutazione, cioè: producono un rendimento, interessi insomma. Così, quando il dipendente va in pensione ha accumulato un capitale composto dai contributi versati dal suo datore di lavoro e dagli interessi maturati: si chiama montante. Questa somma viene divisa per un coefficiente, detto, appunto, di conversione, che cambia in base all’età e al sesso del pensionato. Il risultato di questa divisione è l’assegno pensionistico che si riceve mensilmente. Una variabile che incide sul coefficiente di conversione è l’aspettativa di vita o, come viene chiamato in gergo con una espressione che sa di jattura, il rischio di sopravvivenza (!). Provo a spiegarmi meglio. Un uomo che oggi vada in pensione a 65 anni, è statisticamente atteso che muoia meno di vent’anni dopo. Questa attesa di sopravvivenza è calcolata nel coefficiente di conversione. Se il pensionato, come accade sempre più frequentemente, supera la soglia attesa di premorienza, non gli si può mica togliere la pensione perché i contributi versati dal suo datore di lavoro non sono stati sufficienti a garantirgli una pensione per una vita più lunga del previsto. Dunque continua a percepire una pensione anche se il bilancio dello Stato per la sua singola voce va in passivo. Poco male, però: perché, per un pensionato che campa più di quanto previsto dalle statistiche, ce ne sono di più che muoiono prima e ci sono diversi lavoratori che purtroppo non riescono ad arrivare alla pensione. In questi ultimi due casi, i contributi versati, fatti salvi i diritti di reversibilità di eventuali coniugi e figli (sempre meno onerosi per lo Stato visto che i coniugi titolari di reddito sono ogni anno di più), restano allo Stato a bilanciare le pensioni date a quegli uomini dalla lunga vita.
Ora: la generazione degli attuali trentenni è previsto che viva fino a quasi 90 anni se uomini, addirittura oltre se donne. In buona sostanza, quel “rischio di sopravvivenza” di cui sopra, diventa una “certezza”. Il che è, ovviamente, una fortuna per quanti di noi ci arriveranno in buona salute, un problema però per il bilancio dello stato. Ovvero: se i contributi previdenziali rimangono quelli attuali, non bastano a pagare le pensioni non più per 15 anni in media ma per oltre 25. E chi ci lascerà prima del previsto, non potrà bilanciare i tanti che avranno una vita con standard 90.
Lasciamo perdere le questioni legate alla previdenza complementare che sono un altro aspetto della vicenda.
Le alternative quindi sono due. O lavorare più a lungo, così da ridurre gli anni della pensione avvicinandoli a quelli standard attuali: il che significherebbe prolungare l’attività lavorativa bel oltre i 70 anni di età anagrafica. Oppure modificare i coefficienti di conversione così da avere un assegno vitalizio natural durante ma più piccolo. Potrebbe essere utile una soluzione combinata di queste due ipotesi.
Ma a me piacerebbe conoscere il parere degli italiani sul tema:

Preferite lavorare per più anni e mantenere i livelli pensionistici di adesso

oppure

lavorare quanto adesso e avere una pensione più bassa di quelle erogate attualmente?

Ecco un sondaggio interessante, secondo me.

Unione Dei Clericali

Si parla tanto in questi giorni della possibilità di un’alleanza tra centrosinistra e UDC. Pare che il killer del centrosinistra Massimo D’Alema, adesso vada in giro dicendo che servirà per un po’ l’alleanza tra la sinistra riformista (leggi il Partito Democratico) ed il centro.
Certo ci sono problemi di numeri. Se togli i seggi in Parlamento di PRC, Verdi e PdCI, quelli dell’UDC non ti bastano per dar vita ad una nuova maggioranza. E così il segretario dello scudocrociato Cesa, recentemente ha sostento che il PRC è diverso da PdCI e Verdi. Il partito di Bertinotti, insomma, ha dimostrato d’essere più governativo, più responsabile, meno estremista. Invece ha accostato i radicali di Pannella a comunisti italiani e ambientalisti per la loro battaglia sui Di. CO. e per la difesa della laicità dello Stato.
Io preferirei che si parlasse di allargamento al centro dell’attuale alleanza, piuttosto che di sostituire pezzi del centrosinistra con pezzi del centrodestra.
Ciò detto una riflessione sento di doverla fare comunque. Un conto è a livello nazionale allargare l’Unione o la parte più riformista di essa all’UDC. Ovvero alleare una coalizione del 50% dei voti circa ad un partito del 5%. Un altro conto è invece trasferire questa alleanza, per esempio in Sicilia, dove l’UDC ha quasi il 20% dei voti e tutto il centrosinistra non arriva al 40. Ma soprattutto: un conto è avere come interlocutori e possibili alleati Casini, Cesa e Tabacci (quest’ultimo da sempre impegnato ad immaginare una legislazione a difesa dei consumatori): da questi può dividerti la politica non più di quanto succede fra Mastella e Di Liberto. Un altro conto è avere a che fare con Cuffaro, Borzacchelli, Romano, Miceli e qualche altro che certamente dimentico: da questi non ti divide la politica, bensì le inchieste di mafia.
Ci sono solo due magre consolazioni, al momento. La prima è che Cuffaro è considerato uno dei berluscones dell’UDC. La seconda è che i numeri non ci sarebbero oggi per un governo dell’Unione più l’UDC. Anche se poi con l’MPA e qualche trasfugo…