"Non condivido le tue idee, ma darò la vita perché tu le posesprimere". Voltaire

4.3.07

Più lavoro o più pensione?

Il dibattito di queste settimane sulla riforma delle pensioni ruota anche su questi due aspetti: l’allungamento dell’età lavorativa e il rinnovo dei coefficienti di conversione.
È più semplice da comprendere la prima opzione dunque mi soffermo a spiegare in cosa consiste la seconda.
I datori di lavoro versano i contributi previdenziali ai propri dipendenti per l’intero arco della loro età lavorativa durante la quale sono stati “messi in regola”. Questi contributi annualmente subiscono una valutazione, cioè: producono un rendimento, interessi insomma. Così, quando il dipendente va in pensione ha accumulato un capitale composto dai contributi versati dal suo datore di lavoro e dagli interessi maturati: si chiama montante. Questa somma viene divisa per un coefficiente, detto, appunto, di conversione, che cambia in base all’età e al sesso del pensionato. Il risultato di questa divisione è l’assegno pensionistico che si riceve mensilmente. Una variabile che incide sul coefficiente di conversione è l’aspettativa di vita o, come viene chiamato in gergo con una espressione che sa di jattura, il rischio di sopravvivenza (!). Provo a spiegarmi meglio. Un uomo che oggi vada in pensione a 65 anni, è statisticamente atteso che muoia meno di vent’anni dopo. Questa attesa di sopravvivenza è calcolata nel coefficiente di conversione. Se il pensionato, come accade sempre più frequentemente, supera la soglia attesa di premorienza, non gli si può mica togliere la pensione perché i contributi versati dal suo datore di lavoro non sono stati sufficienti a garantirgli una pensione per una vita più lunga del previsto. Dunque continua a percepire una pensione anche se il bilancio dello Stato per la sua singola voce va in passivo. Poco male, però: perché, per un pensionato che campa più di quanto previsto dalle statistiche, ce ne sono di più che muoiono prima e ci sono diversi lavoratori che purtroppo non riescono ad arrivare alla pensione. In questi ultimi due casi, i contributi versati, fatti salvi i diritti di reversibilità di eventuali coniugi e figli (sempre meno onerosi per lo Stato visto che i coniugi titolari di reddito sono ogni anno di più), restano allo Stato a bilanciare le pensioni date a quegli uomini dalla lunga vita.
Ora: la generazione degli attuali trentenni è previsto che viva fino a quasi 90 anni se uomini, addirittura oltre se donne. In buona sostanza, quel “rischio di sopravvivenza” di cui sopra, diventa una “certezza”. Il che è, ovviamente, una fortuna per quanti di noi ci arriveranno in buona salute, un problema però per il bilancio dello stato. Ovvero: se i contributi previdenziali rimangono quelli attuali, non bastano a pagare le pensioni non più per 15 anni in media ma per oltre 25. E chi ci lascerà prima del previsto, non potrà bilanciare i tanti che avranno una vita con standard 90.
Lasciamo perdere le questioni legate alla previdenza complementare che sono un altro aspetto della vicenda.
Le alternative quindi sono due. O lavorare più a lungo, così da ridurre gli anni della pensione avvicinandoli a quelli standard attuali: il che significherebbe prolungare l’attività lavorativa bel oltre i 70 anni di età anagrafica. Oppure modificare i coefficienti di conversione così da avere un assegno vitalizio natural durante ma più piccolo. Potrebbe essere utile una soluzione combinata di queste due ipotesi.
Ma a me piacerebbe conoscere il parere degli italiani sul tema:

Preferite lavorare per più anni e mantenere i livelli pensionistici di adesso

oppure

lavorare quanto adesso e avere una pensione più bassa di quelle erogate attualmente?

Ecco un sondaggio interessante, secondo me.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

non si potrebbe avere meno lavoro e più pensione?

p.s. ho notato che i commenti ai tuoi post si sprecano.

Francesco Alotta ha detto...

Meno lavoro del tuo mi sembra impossibile...

p.s. Se pensi che non l'avevo detto nemmeno a te di questo blog, pensa quanta altra genete lo sappia...