"Non condivido le tue idee, ma darò la vita perché tu le posesprimere". Voltaire

29.5.07

PdCdS

L’intervista rilasciata da Massimo D’Alema al Corriere della Sera ha rilanciato il dibattito sulla sfiducia che gli italiani provano nei confronti della politica. A parte il fatto che D’Alema avrebbe potuto benissimo fare autocritica, forse ha ragione quando dice che siamo tornati al ’92.
Ma non per la sfiducia degli italiani verso gli uomini delle istituzioni, quanto per il tentativo che, mi par di capire, una parte della classe dirigente di questo paese sta facendo per scalzarne quella al momento al potere. E siccome D’Alema nel ’92 riuscì a riposizionarsi, con l’uscita della settimana scorsa, forse sta tentando di nuovo di farla franca.
Di cosa stiamo parlando esattamente?
Nel ’92 fu lo scandalo Mani Pulite a rovesciare la classe politica che aveva governato, salvo qualche innesto di tanto in tanto, ininterrottamente dalla fine della seconda guerra mondiale.
Lo scandalo era di proporzioni bibliche anche perché la stampa provvedeva ad ingigantirlo. Titoli a tutta pagina in prima, il processo Cusani in diretta TV, uomini potentissimi incapaci di far obbedire i mass media ai loro voleri com’era accaduto fino a quel momento.
Poi però un giorno, dall’oggi al domani, le tv smontano, tutte insieme, le proprie postazioni davanti ai palazzi di giustizia di mezza Italia e lo spazio sui mezzi di comunicazione di massa si ridimensiona. Cosa è accaduto nel frattempo: è scesa in campo una nuova classe politica. Da una parte Silvio Berlusconi che, con il suo partito azienda punta a guidare i moderati di questo paese rimasti orfani del pentapartito; dall’altra parte D’Alema e la sua invenzione, Prodi. D’Alema, Occhetto e altri dirigenti del vecchio PCI sono solo sfiorati da Mai Pulite. Finiscono nel tritacarne per ultimi, quando la stampa decide di spegnere i riflettori, dopo aver fatto fuori i cinque partiti tradizionali del governo repubblicano. Insomma, quando qualcuno è sazio e soddisfatto del lavoro svolto, contento di aver ottenuto la sostituzione di una classe politica che sembrava eterna con un nuovo ceto politico. D’Alema riesce persino a presentarsi come l’uomo nuovo della sinistra italiana, campione del riformismo e del rinnovamento del nostro paese da sinistra: l’alter ego occulto di Berlusconi, costretto però a far spazio a Prodi per portare gli ex pci al governo dell’Italia.
Oggi, però, uno scandalo come tangentopoli non c’è. Ecco allora artificiosamente creare lo scandalo di costi esagerati della politica, come se fossero una novità. In questo modo nel tritacarne finiscono di nuovo tutti, come nel ’92. E l’esigenza non è sostituire l’Unione con la CDL ma, di nuovo, riuscire ad imporre una nuova classe politica.
Mettiamola così.
La classe dirigente italiana si aspettava tanto da Berlusconi. Il fallimento del ’92 glielo perdona perché vittima del complotto di palazzo che porta Dini a Palazzo Chigi. Nel ’94 vince Prodi. Anche lui fallisce, ma gli vengono perdonati i fallimenti, vittima pure lui di un complotto di palazzo che porta a Palazzo Chigi D’Alema. Nel 2001 rivince Berlusconi con una solida maggioranza parlamentare. Il suo fallimento questa volta non viene perdonato dalla classe dirigente italiana: non ha scusanti. Ecco perché i potenti d’Italia decidono di sostenere Prodi. Un sostegno evidenziato dall’esplicito appoggio del Corriere della Sera, espressione di quei poteri forti che Berlusconi ha forse provato a sconfiggere sostenendo Ricucci nella scalata al giornale di via Solferino: sappiamo com’è finita. Senza il sostegno di quello che è bene cominciare a chiamare il Partito del Corriere della Sera, Prodi non avrebbe vinto: Berlusconi era ancora ben voluto da tanta parte dell’Italia. Ma, com’è noto, Prodi vince male ed il suo debutto è anche peggio. Aumenta il numero dei ministri, dei viceministri e dei sottosegretari. Il suo governo, vittima della porcata di Calderoni, è debole al Senato; il suo primo anno di governo al di sotto delle aspettative dell’Italia intera, compreso il partito del Corriere della Sera.
Come uscirne? Prodi vuol completare la legislatura, altrimenti si ricandida. Berlusconi, se si vota prima del 2011, ha le stesse intenzioni. Ma a chi conta in questo paese questi due non vanno più bene. E le loro seconde fila non sono certo degli sconosciuti. Nessun colpo d’ala può venire dai vari D’Alema, Veltroni, Rutelli e soci. Ecco allora perché serve un nuovo scandalo che travolga tutti. E mancando si prova ad inventarlo: la politica costa; i politici guadagnano troppo; sprecano tanto; sono tutti (si badi bene, tutti) incapaci; troppa gente vive di politica. Accuse in parte vere e fondate, ma niente di nuovo sotto il sole e niente di tipicamente italiano che, con le varianti del caso, non si registri in tutte le democrazie.
Nel frattempo Luca Cordero di Montezemolo conclude il suo mandato di presidente di Confindustria. Da tempo la classe dirigente italiana fa circolare il suo nome come leader politico. Lui si schermisce ma intanto, come dire, a furia di farlo circolare si vede l’effetto che fa.
Ma, e qui D’Alema sbaglia, non siamo nel ’92. Lui, è vero, nel dubbio prova ad autotutelarsi. Ma l’attuale classe politica italiana non è debole come quella del vecchio pentapartito. Reagisce. E ha gli argomenti per farlo.
Non è che gli uomini del PdCdS (Partito del Corriere della Sera) brillino per verginità. Intesa e San Paolo si sono fusi con l’assenso della politica; Tronchetti Provera è meglio se non si fa vedere in giro dagli italiani; sua moglie moderi le parole che sennò ce n’è pure per lei; Montezemolo non faccia il verginello chè gli industriali hanno molto da farsi perdonare… La politica si attrezza. Si inventano il Partito Democratico che fallirà ma per saperlo sul serio bisognerà comunque aspettare le europee del 2009 e Berlusconi puntella i confini della sua coalizione forte del suo fortissimo appeal personale con il Paese e, a chi se lo fosse dimenticato, ricorda una banalità: per governare servono i voti…
Stavolta è più difficile del ’92…

Più case per tutti

Palermo non può essere una città che rifiuta i suoi figli.
Negli ultimi anni sono state tante le famiglie costrette ad andare a vivere nei comuni della provincia perché impossibilitati ad acquistare appartamenti con costi proibitivi.
La mancanza di spazi per costruire non aiuta, e, di certo, non si possono creare i presupposti per un nuovo sacco della città distribuendo licenze edilizie a pioggia.
Al contrario, come fatto finora, vanno recuperati gli appartamenti sfitti del centro cittadino.
Resta il problema dei costi alti per le operazioni di acquisto ed eventuale ristrutturazione, con mutui che attualmente superano il 5,50 % di interesse annuo per importi erogati che spesso non sono mai inferiori a € 100.000,00, producendo rate in media sopra € 600,00 mensili e che pertanto vengono ammortizzati anche in 30 anni o più.
Bisogna recuperare l’idea che la prima casa non è solo un bene patrimoniale bensì un diritto.
Ovviamente non se si pretende la casa di lusso.
Compito delle istituzioni statali è riconoscere ai cittadini i propri diritti.
Il sistema delle case popolari non può più essere considerato sufficiente essendo aumentati i livelli minimi richiesti dalle famiglie.
I comuni potrebbero prestare i soldi per l’acquisto della prima casa. Poiché le casse comunali non devono esserne danneggiate, le amministrazioni locali possono farseli restituire facendo salvo il potere d’acquisto delle somme erogate, ovvero ad un tasso pari all’inflazione ufficiale, che è il 2% circa.
Un’azione del genere sarebbe in linea con la difesa dei consumatori dalle distorsioni del sistema bancario italiano avviato dal governo Prodi anche col secondo decreto Bersani.
Indubbiamente le banche si vedrebbero sottrarre parte dei loro potenziali clienti.
Ma possono comunque avere un ruolo centrale, magari entrando pro quota con le amministrazioni pubbliche in un ente erogatore: in questo caso i comuni non uscirebbero nemmeno un centesimo. Resterebbe comunque appannaggio dei soli istituti di credito l’erogazione di mutui per le seconde case ed oltre, nonché per le prime case di pregio.
Ritengo infatti che dell’agevolazione di cui sopra dovrebbero poterne beneficiare le giovani coppie eterosessuali per appartamenti di circa 100 mq divisi in cucina-soggiorno, due servizi e tre camere, una per sé ed una per ogni figlio; in caso di coppie omosessuali o eterosessuali che dichiarino di non prevedere la nascita di prole gli acquisti finanziati andrebbero ad appartamenti al massimo di 85 mq con cucina-soggiorno, un servizio ed una sola camera; per i single non oltre 60 mq tra cucina-soggiorno, servizio e camera: in quest’ultimo caso si consentirebbe ai maggiorenni di uscire dalla casa dei genitori prima dei trent’anni.

Un traffico diverso

C’è un motivo banale per cui i palazzi veneziani sembrano molto più belli di quelli di altre città italiane. Al di là della loro fattura, sono splendenti e lucenti. Forse perché l’amministrazione comunale passa uno speciale prodotto su questi edifici? No di certo. La motivazione è ben più banale. A Venezia non circolano, com’è noto, automobili e quindi non c’è inquinamento atmosferico da smog, quello che, come dimostrato da esami empirici, sporca i nostri polmoni, ovviamente le lenzuola bianche e, appunto, le facciate. Ecco un motivo in più per puntare alla riduzione del traffico veicolare, specialmente a benzina o diesel. Ma come fare? Oramai tutte le città hanno individuato una zona ZTL
In questa zona devono poter circolare soltanto motocicli, ciclomotori, mezzi pubblici, taxi e veicoli elettrici.
Il numero dei taxi va ovviamente incrementato. E bisogna distinguere due gruppi fra le tratte compiute dai taxi: un primo gruppo relativo alle corse all’interno della zona ZTL oppure “da” o “verso” la zona ZTL; un secondo gruppo che comprende tutte le altre corse.
Per quelle del primo Gruppo va eliminata la tariffa di partenza dei taxi ed eventualmente abbassata quella relativa alla corsa. Lasciamo invece invariate le tariffe per le corse del secondo gruppo.
Attualmente per un automobilista che si muove in auto per le vie del centro, si possono calcolare, a seconda della città, fino a € 5 di spesa per la benzina più i costi dei parcheggi privati che vanno da € 1 a € 3 per un’ora o frazione di essa.
Un taxi del primo gruppo non costerebbe di più. Ciò nonostante, essendo tutti costretti a muoverci con i mezzi pubblici, i taxi lavorerebbero ben più di adesso e non potrebbero che essere contenti. Noi ci risparmiamo la ricerca del parcheggio. L’attesa per un taxi non dove superare i 15’, altrimenti si incrementa il numero delle licenze.
Incrementare da subito la presenza dei taxi e via via se necessario, crea occupazione.
Entro un anno dall’entrata in vigore di questo sistema, motocicli, e ciclomotori ammessi nella ZTL dovranno funzionare elettricamente; i nuovi taxi su nuove licenze anche; lo stesso discorso vale per gli autobus. Entro due anni tutti i taxi dovranno funzionare elettricamente: ridurre l’inquinamento atmosferico è un obbligo morale anche per salvaguardare la nostra salute.


Energie alternative di masa

Non ci soffermiamo su quanto possa essere importante per l’Italia sfruttare in maniera intensiva altre forme di produzione di energia elettrica, a partire dalla possibilità di ridurre la dipendenza dai paesi esportatori delle materie prime per la produzione di energia.
L’idea è che tutti i tetti delle città siano realizzati o coperti da pannelli solari.
Ogni casa o condominio si produrrebbe da sé l’energia necessaria.
Non si pagherebbe più l’ENEL!
L’energia prodotta in eccesso verrebbe conservata e rivenduta: ad aziende il cui spazio per i pannelli sarebbe insufficiente a produrre l’energia necessaria; ad altri comuni in concorrenza con il monopolista: finalmente si creerebbe un mercato dei fornitori.
La stessa energia prodotta dai pannelli solari può essere utilizzata per riscaldare gli ambienti, riducendo fino ad annullarlo il consumo del metano, anche qui aprendo alla concorrenza ed abbassando i costi.
In prospettiva agli appartamenti vanno applicate le più recenti scoperte per incrementare il risparmio energetico.
Poiché i costi per l’istallazione degli impianti è inizialmente pesante per le famiglie, il ruolo delle istituzioni pubbliche deve essere quello di sostenere tali costi iniziali avocando a sé la gestione e commercializzazione dell’energia prodotta in eccedenza al fabbisogno così da averne un ritorno economico senza danneggiare le casse pubbliche

12.3.07

Primum vivere

Il Presidente del Consiglio Romano Prodi alle prese personalmente con le trattative sulla nuova legge elettorale.
Sta addirittura facendo le consultazioni con i partiti politici che riceve a Palazzo Chigi.
È il risultato della quasi crisi di governo di qualche settimana fa. Sono cambiate le priorità della sua azione amministrativa. Non più l’economia ma le vicende elettoralistiche. Che meno incidono sulla quotidianità degli italiani, che meno interessano al paese e alle quali Prodi rischia di legare il suo nome ed il suo futuro politico. Ma non aveva altra scelta. Se avesse deciso di lasciare ai suoi alleati, specie diessini, il pallino della discussione, ne sarebbe venuta fuori una legge per superarlo con, magari, l’accordo più o meno tacito di nuove elezioni dopo l’approvazione del testo. Nessuna chance quindi di arrivare a fine legislatura.
Avere avocato a sé la guida delle trattative è la dimostrazione che Prodi al complotto dei diessini contro di lui crede eccome. E ne ha fatto giustamente le spese il ministro DS per i rapporti col Parlamento Vannino Chiti che finora aveva condotto le trattative. Si è sentito defraudato anche perché la sua presenza accanto a Prodi nelle consultazioni coi partiti non era inizialmente prevista. S’è impuntato, ha minacciato le dimissioni, ha chiesto sostegno al suo segretario e alla fine Prodi ha accondisceso. E Chiti ha potuto dichiarare ai giornali che si riparte dal lavoro fin qui svolto da lui. Ma è Prodi che riparte, mica lui. È Prodi che prova a dare le carte, e non D’Alema. Con l’obbiettivo, per il premier, di portare la partita alla sua conclusione naturale. Una bella sfida. Con il cinico D’Alema sempre pronto a sfilargli qualche asso dal mazzo per giocarselo in prima persona.

8.3.07

Tirati di coca

Leggo in questi giorni la proposta della Sinistra radicale italiana e di un ex ambasciatore canadese, in discussione a Roma e addirittura a Londra, di consentire al popolo afgano la coltivazione dell’oppio, la pianta da cui si ricava anche l’eroina, per produrre morfina ad uso terapeutico negli ospedali.
Attualmente è l’India che coltiva l’oppio necessario al fabbisogno mondiale. Lo fa controllando, da grande e quasi moderna democrazia qual è, la produzione. Sugli agricoltori indiani sono sempre puntati i riflettori della magistratura e degli inquirenti locali. Gli agricoltori la vendono a venticinque euro al chilo. La produzione afgana rende invece al contadino oltre cento euro al chilo. Ovviamente perché questa produzione eccede le esigenze mondiali legali e perché a comprare è il narcotraffico. Se l’Occidente vuol farsi ben volere dai contadini afgani deve inventarsi, e non da ora, qualcosa che faccia guadagnare altrettanto ai contadini.
La proposta di consentire la coltivazione d’oppio è evidente che finirebbe per ingrassare i trafficanti di droga.
A questo punto avanzo io una proposta: facciamo incontrare i talebani e la mafia: ai contadini afgani lasciamo la produzione, a Cosa Nostra affidiamo la commercializzazione. Sono certo che questa joint – venture funzionerebbe alla grande.

Programma di popolo

Il candidato sindaco del centrosinistra Leoluca Orlando ha incontrato i palermitani in un cinema della città per farsi suggerire il programma.
Mi ricorda tanto il metodo di Rita Borsellino, candidato dell’Unione alla Presidenza della Regione. È finita con Cuffaro presidente e vernacolare spotman con la coppola in testa.
Non vorrei che Orlando facesse la stessa fine della Borsellino.
Da ogni parte si è detto che lui è l’unico esponente del centrosinistra in grado di parlare a pezzi del centrodestra.
La sua sfida è certamente improba. Mi auguro che mentre lui gira per la città ad incontrare il popolo dell’Unione ci sia chi per lui gira ad incontrare palermitani di centrodestra da affascinare con il suo progetto per Palermo. E spero che lui stesso trovi il tempo per farlo.
Se non vinciamo a Palermo, il centrosinistra siciliano dovrà finalmente fare quella profonda riflessione su sé stesso che rinvia da troppo tempo.

4.3.07

Più lavoro o più pensione?

Il dibattito di queste settimane sulla riforma delle pensioni ruota anche su questi due aspetti: l’allungamento dell’età lavorativa e il rinnovo dei coefficienti di conversione.
È più semplice da comprendere la prima opzione dunque mi soffermo a spiegare in cosa consiste la seconda.
I datori di lavoro versano i contributi previdenziali ai propri dipendenti per l’intero arco della loro età lavorativa durante la quale sono stati “messi in regola”. Questi contributi annualmente subiscono una valutazione, cioè: producono un rendimento, interessi insomma. Così, quando il dipendente va in pensione ha accumulato un capitale composto dai contributi versati dal suo datore di lavoro e dagli interessi maturati: si chiama montante. Questa somma viene divisa per un coefficiente, detto, appunto, di conversione, che cambia in base all’età e al sesso del pensionato. Il risultato di questa divisione è l’assegno pensionistico che si riceve mensilmente. Una variabile che incide sul coefficiente di conversione è l’aspettativa di vita o, come viene chiamato in gergo con una espressione che sa di jattura, il rischio di sopravvivenza (!). Provo a spiegarmi meglio. Un uomo che oggi vada in pensione a 65 anni, è statisticamente atteso che muoia meno di vent’anni dopo. Questa attesa di sopravvivenza è calcolata nel coefficiente di conversione. Se il pensionato, come accade sempre più frequentemente, supera la soglia attesa di premorienza, non gli si può mica togliere la pensione perché i contributi versati dal suo datore di lavoro non sono stati sufficienti a garantirgli una pensione per una vita più lunga del previsto. Dunque continua a percepire una pensione anche se il bilancio dello Stato per la sua singola voce va in passivo. Poco male, però: perché, per un pensionato che campa più di quanto previsto dalle statistiche, ce ne sono di più che muoiono prima e ci sono diversi lavoratori che purtroppo non riescono ad arrivare alla pensione. In questi ultimi due casi, i contributi versati, fatti salvi i diritti di reversibilità di eventuali coniugi e figli (sempre meno onerosi per lo Stato visto che i coniugi titolari di reddito sono ogni anno di più), restano allo Stato a bilanciare le pensioni date a quegli uomini dalla lunga vita.
Ora: la generazione degli attuali trentenni è previsto che viva fino a quasi 90 anni se uomini, addirittura oltre se donne. In buona sostanza, quel “rischio di sopravvivenza” di cui sopra, diventa una “certezza”. Il che è, ovviamente, una fortuna per quanti di noi ci arriveranno in buona salute, un problema però per il bilancio dello stato. Ovvero: se i contributi previdenziali rimangono quelli attuali, non bastano a pagare le pensioni non più per 15 anni in media ma per oltre 25. E chi ci lascerà prima del previsto, non potrà bilanciare i tanti che avranno una vita con standard 90.
Lasciamo perdere le questioni legate alla previdenza complementare che sono un altro aspetto della vicenda.
Le alternative quindi sono due. O lavorare più a lungo, così da ridurre gli anni della pensione avvicinandoli a quelli standard attuali: il che significherebbe prolungare l’attività lavorativa bel oltre i 70 anni di età anagrafica. Oppure modificare i coefficienti di conversione così da avere un assegno vitalizio natural durante ma più piccolo. Potrebbe essere utile una soluzione combinata di queste due ipotesi.
Ma a me piacerebbe conoscere il parere degli italiani sul tema:

Preferite lavorare per più anni e mantenere i livelli pensionistici di adesso

oppure

lavorare quanto adesso e avere una pensione più bassa di quelle erogate attualmente?

Ecco un sondaggio interessante, secondo me.

Unione Dei Clericali

Si parla tanto in questi giorni della possibilità di un’alleanza tra centrosinistra e UDC. Pare che il killer del centrosinistra Massimo D’Alema, adesso vada in giro dicendo che servirà per un po’ l’alleanza tra la sinistra riformista (leggi il Partito Democratico) ed il centro.
Certo ci sono problemi di numeri. Se togli i seggi in Parlamento di PRC, Verdi e PdCI, quelli dell’UDC non ti bastano per dar vita ad una nuova maggioranza. E così il segretario dello scudocrociato Cesa, recentemente ha sostento che il PRC è diverso da PdCI e Verdi. Il partito di Bertinotti, insomma, ha dimostrato d’essere più governativo, più responsabile, meno estremista. Invece ha accostato i radicali di Pannella a comunisti italiani e ambientalisti per la loro battaglia sui Di. CO. e per la difesa della laicità dello Stato.
Io preferirei che si parlasse di allargamento al centro dell’attuale alleanza, piuttosto che di sostituire pezzi del centrosinistra con pezzi del centrodestra.
Ciò detto una riflessione sento di doverla fare comunque. Un conto è a livello nazionale allargare l’Unione o la parte più riformista di essa all’UDC. Ovvero alleare una coalizione del 50% dei voti circa ad un partito del 5%. Un altro conto è invece trasferire questa alleanza, per esempio in Sicilia, dove l’UDC ha quasi il 20% dei voti e tutto il centrosinistra non arriva al 40. Ma soprattutto: un conto è avere come interlocutori e possibili alleati Casini, Cesa e Tabacci (quest’ultimo da sempre impegnato ad immaginare una legislazione a difesa dei consumatori): da questi può dividerti la politica non più di quanto succede fra Mastella e Di Liberto. Un altro conto è avere a che fare con Cuffaro, Borzacchelli, Romano, Miceli e qualche altro che certamente dimentico: da questi non ti divide la politica, bensì le inchieste di mafia.
Ci sono solo due magre consolazioni, al momento. La prima è che Cuffaro è considerato uno dei berluscones dell’UDC. La seconda è che i numeri non ci sarebbero oggi per un governo dell’Unione più l’UDC. Anche se poi con l’MPA e qualche trasfugo…

25.2.07

A bocca aperta

Qualche riflessione su questa crisi di governo.
La prima. Che bisogno c’era di un dibattito al Senato sulla politica estera del governo? L’ha chiesto il presidente della Repubblica dopo che il governo è andato sotto nel dibattito sulla nuova base americana di Vicenza. Ho già scritto che sono contrario alla costruzione della base; e che le basi USA sul territorio italiano devono essere trasformate in basi NATO o chiuse e che il patto della NATO va rivisto rendendo gli alleati tutti uguali nei diritti e dei doveri.
Ciò detto riflettiamo. La nuova base di Vicenza c’entra poco con la politica estera del governo nel suo complesso. Riflette il rapporto bilaterale che abbiamo con gli USA e finisce lì. È parte della politica estera e non la totalità di essa.
Come per la Finanziaria, il governo e la maggioranza si mostrano dilettanti allo sbaraglio. Il centrodestra, sapendo di mettere in difficoltà l’Unione nella sua ala estrema di sinistra, presenta un ordine del giorno che recita, testualmente: il Senato, udite le comunicazioni del governo le approva. Insomma, la Casa delle Libertà approvava quanto appena finito di dire dal ministro della Difesa Arturo Parisi. RC, PdCI e Verdi rifiutano di sommare i propri voti a quelli della Casa delle Libertà e costringono il governo a dirsi contrario al contenuto di quell’ordine del giorno. Si va ai voti. Ovviamente, personalità di grande intelligenza dell’Ulivo e non infantili come il personale politico dell’estrema sinistra, rifiutano categorie mentali ideologizzate e votano quell’odg che passa. Passa anche l’ordine del giorno dell’Unione che, udite udite, non approva le comunicazioni di Parisi ma semplicemente ne prende atto. Per il governo è comunque una sconfitta politica che induce Napolitano a chiedere un dibattito al Senato sulla politica estera. È l’esatto contrario di quanto fatto finora dal governo il quale, cosciente della risicata maggioranza a Palazzo Madama, cerca di evitare i voti parlamentari quanto più possibile. Ma la proposta di Napolitano viene fatta propria dal governo e si va. Massimo D’Alema, che non ha imparato niente dalle regionali perse che gli costarono il posto, dopo aver promesso che avrebbe lasciato Palazzo Chigi se il centrosinistra le perdeva, lancia al Senato un’altra sfida: o approvate la mia politica estera o il governo si dimette. Nessuno lo smentisce, purtroppo, anche se il ragionamento, semplicemente, non ha senso, come non aveva senso la richiesta del Quirinale.
Riflessione d’obbligo, prima di proseguire. Al Quirinale c’è un diessino in ottimi rapporti con D’Alema. Ritengo che quest’ultimo, favorendone l’elezione al suo posto, vi abbia messo un uomo disponibile nei suoi confronti. Il Quirinale che invitava al dibattito sulla politica estera, faceva il gioco di D’Alema, che, uscitone vincitore si sarebbe rafforzato. Ecco perché la proposta di Napolitano. D’Alema, ritengo, gliel’ha suggerita a suo vantaggio. Ed invece è andata come sappiamo. Tutti, tranne Fassino, volevano fortemente D’Alema al governo perché sapevano che rappresentava un pericolo lasciarlo scorazzare libero nella politica italiana: già una volta aveva complottato con Bertinotti per far cadere Prodi. E quest’ultimo, non riuscendo a neutralizzarlo mandandolo al Quirinale, ha pensato bene di esiliarlo agli Esteri. Ma D’Alema è D’Alema, e per la politica interna italiana una jattura: dovrebbe dedicarsi solo alle cancellerie straniere, con le quali può sfogare la sua indole da tessitore di trame. Ma il nostro non ce la fa a non occuparsi delle cose italiane. E non potendo fare diversamente, ha inguaiato Prodi con la politica estera.
Ma torniamo al nostro racconto dell’assurdo.
Puntatosi da solo una P38 in faccia e messala nelle mani di irresponsabili come Turigliatto e Rossi, D’Alema, pieno di sé, li ha provocati e loro hanno sparato.
Prima che qualcuno potesse parare il colpo, irritualmente è salito al Quirinale: a fare che? Di solito è il capo del governo e non il suo vice che fa certe cose. Per consultazioni, dicono. Per imboccare Napolitano e suggerirgli il da farsi, dico io. Una simile ricostruzione sui giornali non si trova. Ma un po’ tutti gli articoli provano a suggerire di D’Alema l’idea del complottardo. Altra riflessione. Sulle comunicazioni di D’Alema il governo non pone la fiducia, dunque non v’è alcun obbligo alle dimissioni, eppure Prodi le dà.
Ripercorriamo l’assurdo. Assurdamente Napolitano chiede un dibattito sulla politica estera; assurdamente il governo lo concede; assurdamente D’Alema provoca; assurdamente, dopo il voto, sale al Quirinale; assurdamente Prodi si dimette.
Il dilettantismo dell’Unione al Senato non è certo di questo mese. Pur consapevole di avere un margine di pochi voti che fa? Elegge uno dei propri alla Presidenza del Senato, perdendo un voto. Peggio. Elegge un senatore al Quirinale, perdendone un altro: due in tre settimane. Come se non si potesse rinunciare, dato l’esito delle elezioni, a guidare Palazzo Madama (l’ultimo voto utile espresso da Marini) e come se i DS, a parte D’Alema e (il ventriloquo?) Napolitano (81 anni) non avessero altre personalità per la Presidenza della Repubblica.
Il governo la settimana prossima avrà la fiducia ma rischia di essere un’anatra zoppa. E di certo ha perso, ad oggi, molto del suo risicato smalto.
Il nuovo voto di fiducia poteva essere l’occasione per un dimagrimento delle compagine ministeriale, forte di centouno (!) membri. Non so quanti sottosegretari possono essere considerati supeflui, ma quasi una dozzina di ministri potrebbe lasciare il governo senza che l’Italia ne risenta, anzi.
Ed invece, questa volta per comprensibile prudenza, meglio non stravolgere la situazione.
Alla fine qualcosa di buono però potrebbe uscire. Prodi, con il suo dodecalogo, pare aver dato una bella frustata a Verdi, PdCI e RC. La speranza, poco fondata, è che li abbia ridotti alla ragione per lungo tempo.
Ultima riflessione. La sinistra radicale non ha voluto finora sentir parlare di maggioranze variabili. Guai se il governo varava provvedimenti aprendo a settori dell’opposizione.
Eppure la sinistra radicale non se n’è schifiata quando è stato approvato l’indulto. Quando la maggioranza variabile si è creata ed il provvedimento è passato coi voti di FI e UDC, ma senza quelli di IdV che si è aggiunta all’opposizione di Lega e AN. In quel caso, la maggioranza variabile andava bene.

19.2.07

Binnu il confidente

Mercoledì scorso su RAIUNO è andata in onda la fiction in una sola puntata su Bernardo Provenzano.
Tralascio il giudizio complessivo sull’opera: in Sicilia diciamo sfinci ri prescia. Adesso attendiamo la fiction sullo stesso argomento realizzata per conto di Mediaset e dove Provenzano è interpretato da Michele Placido.
Ma c’è un aspetto che mi ha colpito particolarmente.
Il regista ha lasciato intendere che u tratturi avrebbe favorito prima l’arresto di Totò Riina e poi quello di Leoluca Bagarella per rimanere solo alla guida di Cosa Nostra.
Una teoria non nuova che circola da tempo ma ancora non suffragata. O no?

14.2.07

Di.Co. sì

Il governo Prodi ha licenziato un disegno di legge col quale in Italia verranno istituiti i DI.CO., diritti dei conviventi, versione all’italiana dei PACS francesi.
Non è il matrimonio, non sono i PACS francesi, non è nemmeno quel concetto repubblicano di matrimonio che io ho invocato più sotto (v. Del matrimonio (parte seconda)) ma sono comunque una buona cosa che condivido.
Scattano se due persone conviventi, singolarmente o contestualmente ma non insieme, informano l’anagrafe del comune di residenza di convivere. I due soggetti in questione possono essere legati da effetto ma anche, come da me auspicato ed esemplificato, da legami di parentela, senza distinzione di sesso.
Automaticamente vengono loro riconosciuti diritti e doveri verso la comunità di cui fanno parte. I diritti non vengono acquisiti tutti immediatamente ma poco a poco via via che aumentano gli anni di convivenza. Questo per la verità non lo condivido. Ritengo che i diritti e i doveri debbano essere riconosciuti tutti immediatamente e revocati al momento della rottura del rapporto, anche questo semplicemente comunicato senza ulteriori complicazioni burocratiche e giuridiche.
Detto questo condivido appieno i DI.CO.
Ovviamente e giustamente, riconosciuto il diritto alla reversibilità della pensione, il disegno di legge rinvia la soluzione alla riforma delle pensioni che farà il governo Prodi.
Bene per il governo, brave le ministre Pollastrini e Bindi. Verso quest’ultima si mantiene alta la mia stima. Ha difeso bene il progetto di legge a Porta a Porta contro Buttiglione e Alemanno. Da tempo ritengo che potrebbe essere un buon capo del governo.

8.2.07

Flavio la peste

Mai avuta grande stima di Giovanna Melandri. Il ministro per lo Sport ha deciso di rivoluzionare il mondo del calcio, e si muove come un marziano, visto che questo mondo non lo conosce proprio.
Gli unici apprezzamenti pare li abbia ricevuti dai calciatori della nazionale che, festeggiando negli spogliatoi la vittoria della Coppa del Mondo, sembra abbiano iniziato a gridare: faccela vedè, faccela toccà. E lei, che come tutti aveva capito, indignata si è rivolta ai giornalisti precisando che i calciatori si rivolgevano alla coppa. Non c’è dubbio. Alla coppa pensavano, ma non a quella del Mondo.
Ma a confermare il parere negativo che ho di questa donna è la polemica che lei ha creato e che l’ha inseguita per settimane sui suoi soggiorni nella casa keniota di Flavio Briatore. Anche qui lei ha negato sdegnata. E anche qui ha provato a negare inutilmente l’evidenza. C’erano i testimoni, che lei smentiva. E alla fine, a smentire lei sono arrivate le foto. Inevitabile visto che dava dei bugiardi a gente come il direttore del TG5 Carlo Rossella, che ricorda tre incontri con l’allora deputato, e Simona Ventura, che, a casa di Flavio, insieme a Giovanna, ci ha passato capodanno insieme ad altre due amiche. Sarà stato lo stesso padrone di casa stanco d’essere così platealmente snobbato e schifiato, sarà stato uno dei bugiardi sinceri, o magari qualche altro indignato dalla bugie del ministro, alla fine qualcuno ha uscito le foto e non è certo mancato il settimanale disposto a pubblicarle. C’è Briatore e c’è la Melandri che balla con indosso un kaffetano.
Perché non mi piace la Melandri? Perché, come molti a sinistra, è ipocrita. Vuol apparire diversa da com’è. Migliore di com’è. Politicamente corretta secondo finti valori che imperverserebbero dalle sue parti politiche, dove Briatore è considerato kitch, da snobbare, certo non la persona da frequentare per un ex ministro della Cultura. I valori di Briatore sono le donne, i danari, il successo, la ricchezza, le case sparse per il mondo, non certo Marquez o Hess. La Melandri non poteva passare per amica di un tale buzzurro, che ha osato indignarsi per la tassa sugli yacht dei ricchi voluta dal presidente della Regione Sardegna, ricco pure lui ma di centrosinistra e con le letture e i valori giusti.
Bèh, poteva pensarci prima di cedere alla bellezza della ricchezza. Se proprio disprezza Briatore, ma io non ne vedo il motivo, poteva evitare di frequentarlo, invece di fare questa figuraccia.
L’Italia non ha bisogno di Briatore, ma può certamente fare a meno della Melandri: il suo posto potrebbe essere più efficiente in mano ad altri. Ma in questo non è la sola.

Il Democratico Sofri

Con la scusa che l’eterno nascituro Partito Democratico dovrà accogliere diverse culture politiche, il PD rischia di mescolare nello stesso calderone il diavolo e l’acqua santa.
E fin qui, vabbè. Ma sarebbe corretto che il nuovo partito segnasse una minima discontinuità rispetto a certi rituali e miti della Sinistra italiana. Invece vi cedono lo stesso Fassino, il solito D’Alema e il sempre sorprendente Walter Veltroni.
Fassino ieri ha presentato in un cinema romano la sua mozione congressuale a favore del PD. Per l’occasione Senato e Camera hanno fermato i lavori, così da consentire a deputati e senatori d’essere presenti all’evento. Si è incazzata la CdL? No. Il diessino, e senatore, Cesare Salvi, scandalizzato che i lavori parlamentari vengano sospesi per la riunione di una corrente che, per inciso, non è la sua, essendo il presidente della commissione giustizia del Senato contrario alla nascita del PD e allo scioglimento dei DS. Salvi è, insieme a Mussi, Angius, Calderola e altri, uno di questi recenti socialisti postcomunisti, che sono socialisti in Europa e non si sa bene che cosa in Italia. Fassino, D’Alema e Veltroni, per lo meno il nodo vogliono scioglierlo, inventandosi i Democratici all’italiana.
Ma ciò che non andava nella manifestazione di ieri era la presenza di, appunto, uno dei miti della peggiore sinistra di questo paese: Adriano Sofri, ex leader di Lotta Continua e pertanto amico di vecchi compagni di battaglia come Enrico Deraglio, Giuliano Ferrara, Gad Lerner e tanti altri autorevoli giornalisti italiani, i quali, sfruttando le proprie posizioni di potere hanno, appunto, fatto un mito del proprio ex compagno e lo dipingono come persona onesta, retta e proba, con una grande sensibilità verso il genere umano, grande pensatore, autorevole opinionista politico, capace giornalista e quant’altro. Mentre invece è l’assassino del commissario Calabresi, secondo più sentenze definitive della magistratura. Sofri è talmente mito da rifiutare di chiedere la grazia al Capo dello Stato e da pretendere, al contrario, che i vari inquilini del Quirinale gliela concedano motu proprio.
Ora se anche Sofri può stare nel PD, immagino che molti vi rinunceranno.
P.S.: Dopo aver redatto questo post e prima della pubblicazione è arrivata la notizia che anche l'on. Olga D'Antona, moglie del giuslavorista Marco Biagi assassinato dalle nuove BR si è indignata per la presenza di Sofri alla presentazione della mozione Fassino. Fa piacere sapere di essere in buona compagnia.

Lettera dal fronte

Ho già scritto che l’Italia deve rimanere in Afghanistan.
Il nostro intervento in questo paese era finalizzato al rovesciamento del regime dei talebani, ovvero di Al Qaeda che ha sferrato l’atto bellico a danno degli USA l’11 settembre del 2001. E gli USA sono nostri alleati, al cui soccorso dobbiamo andare in base agli accordi della NATO.
Le nostre truppe in Afghanistan svolgono un ruolo marginale, di controllo delle province meridionali, non direttamente impegnate nello smantellamento della guerriglia talebana. La NATO, su richiesta del comando USA, ci chiede invece un maggiore impegno, non soltanto in termini di truppe, ma anche di qualità dell’intervento. Nel disegno statunitense, i nuovi rinforzi italiani andrebbero concentrati in quelle aree del paese dove i militari USA e britannici combattono quotidianamente, manu militari, il nemico.
Obbiettivamente, la richiesta non è sbagliata. Se siamo lì per far fuori i talebani, che sono una minaccia per tutto l’Occidente, o li combattiamo o non ha senso rimanere acquartierati dove i talebani non ci sono. Perché questo vorrebbe dire rimanerci a tempo indeterminato, in attesa che altri facciano il da farsi.
Il nostro governo dovrebbe dirottare in Afghanistan le truppe ritirate dall’Iraq e schierarle contro Al Qaeda.
Detto questo, è una decisione che spetta al nostro governo e che la maggioranza italiana deve prendere in totale autonomia. Bene hanno fatto Prodi e soprattutto D’Alema a reagire malamente alla lettera di sei ambasciatori guidati da quello americano in cui ci si rivolge direttamente agli italiani perché spingano il governo a rimanere in Afghanistan. È una bella interferenza. Sei paesi stranieri, seppur amici, si rivolgono ad un popolo perché modifichi la linea di condotta del governo che hanno eletto. Manco fossimo noi stessi l’Afghanistan! Ricordate quando ho scritto dell’idea imperiale che gli USA hanno di sé? Eccone una prova.
La lettera, ispirata dal Dipartimento di Stato USA, dimostra poi che l’amicizia tra Condi Rice e D’Alema era una burla di quest’ultimo. Ma questo l’avevamo capito da soli. La missiva incriminata è un bell’attacco anche alla megalomania del nostro ministro degli Esteri, che si è dovuta accontentare della sconfessione dell’ambasciatore rumeno da parte del suo governo, premier in testa.

5.2.07

L'antipapa

Nella domenica senza calcio ha tuonato Pippo Baudo in collegamento telefonico con Quelli che il calcio e…
Il presentatore catanese, toccato dai fatti della sua città, se l’è presa con la Chiesa – che ha mantenuto i festeggiamenti per Sant’Agata – e con il Papa che all’Angelus ha nuovamente attaccato l’indipendenza dello Stato Italiano invece di occuparsi delle coscienze dei suoi fedeli.
La passione di Baudo per la politica è nota. Democristiano di confessione demitiana, ha fatto da testimonial al partito di D’Antoni e Andreotti. Ma ha sempre rifiutato l’impegno in prima persona, declinando le proposte di candidature ad elezione certa che gli faceva De Mita, e quelle incerte per conto di DE o dell’Ulivo alle ultime regionali siciliane. Per DE fece scendere in campo l’allora moglie Katia Ricciarelli.
Baudo ieri ha dimostrato di seguire la politica ancora da democristiano, ovvero da cattolico laico che non accetta le interferenze della Chiesa nelle vicende della Repubblica.
Abbiamo riso tutti quando Rutelli pensò di schierarlo contro Cuffaro. Certo però che per trovare un personaggio pubblico col coraggio di richiamare Ratzinger al suo mestiere finora si faceva fatica invano. Adesso sappiamo che ne esiste almeno uno.
Forza Baudo!

La Veronica

Ebbene sì, anch’io cedo alla tentazione di dedicare il mio tempo ai Berlusconi e alla loro vicenda amorosa perché ho impressione che in questi giorni si sia tralasciato qualcosa delle due lettere.
Prima di sottolinearne questi aspetti, voglio dire che concordo con chi ha visto nella lettera della Berlusconi uno schiaffo al marito, perché è stata scritta, pubblicata e per di più su la Repubblica. Pare che lui si negasse da venti giorni, e lei lo ha costretto a farsi ascoltare. Grande. S’erano messi d’accordo? Francamente non credo. Lui non c’ha fatto una gran bella figura. Nessuno vorrebbe essere in questa vicenda al posto dei loro figli. Berlusconi non c’ha guadagnato. La moglie sì. Finalmente qualcuno che ruota attorno al grande capo e non solo dissente, ma lo schiaffeggia in pubblico senza temere conseguenze. Mi tornano in mente le parole di Sandro Bondi che vorrebbe Veronica al posto di Silvio. Ameno così il suo amore verso il capo non sarebbe più omosessuale. L’idea non è poi così peregrina. Né Casini, né Fini, men che meno Bossi, possono tenere unita la CdL. Dovrebbe provarci qualcuno che oggi è un po’ defilato sul campo nazionale, come il sindaco di Milano Letizia Moratti o il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, che però ogni tanto litiga con la Lega. La Veronica invece rimetterebbe tutti in riga, anche perché donna. La sua biografa Maria Latella smentisce interessi politici della signora, ma d’altronde anche la Clinton, finchè fu first lady smentiva di voler fare politica in prima persona, come se già non la facesse: solo che non aveva incarichi istituzionali. Se la Veronica si convincesse che ne va del patrimonio di famiglia, potrebbe scendere in campo. D’altronde si è più volte preoccupata che i suoi tre figli fossero trattati dal padre alla stessa maniera dei primi due di primo letto, in questo ricordando le mogli e madri di certi imperatori romani, preoccupate di tutelare, se non addirittura di favorire, i propri figli rispetto a quelli delle consorti precedenti. Dunque se la Veronica si convincesse che l’ “impero” è in pericolo e che solo lei può salvarlo, per lo stesso motivo del marito, vale a dire gli interessi di famiglia, credo che potrebbe decidere di scendere in campo. E sarebbe un’altra vittoria per la CdL ed una sonora sconfitta per l’Unione, che al massimo può contare su Walter Veltroni, il che è quanto dire. La destra italiana si confermerebbe peronista e noi avremmo la nostra Evita, riveduta e corretta in base alle circostanze e ai tempi mutati.
Alla luce di queste riflessioni, sostengo sempre la tesi che i due non si sono messi d’accordo in questa vicenda? Sì. Lei si è preoccupata di difendere la sua dignità e non il suo matrimonio. Si è preoccupata del suo buon nome, di non apparire accessoria rispetto al marito, si è preoccupata di dimostrare che sa tenere testa a chiunque, che ha le palle.
Ma se leggiamo meglio la sua lettera, quella della Veronica è una presa di posizione recente. E la sua vita quanto di più distante da un esempio d’emancipazione femminile.
Diciamocelo prima di qualunque altra cosa. Silvio, questa volta, non ha fatto, nei suoi confronti nulla di più offensivo rispetto al passato. Ma lei soltanto adesso si ribella.
Aggiungiamo anche che lei scrive di aver dedicato la sua vita alla famiglia, mentre le figlie femmine di casa, sono lanciate nel mondo del lavoro nell’azienda di famiglia, l’esatto opposto dell’esempio dato dalla Veronica.
Ma veniamo alla lettera.
La Veronica scrive che nel suo matrimonio ci sono stati contrasti e momenti dolorosi che lei ha trattato con rispetto e discrezione. La natura di questi non è specificata ma, in un blog possiamo dircelo, non è peregrino immaginare discorsi di corna.
Che moglie ha scelto di essere la Veronica? Una che non vuole lasciare spazio al conflitto coniugale, anche quando i comportamenti di Berlusconi ne hanno creato i presupposti. Insomma, una moglie che, credendo nel suo matrimonio più che in sé stessa, dal marito accetta tutto per la serietà e la convinzione con la quale mi sono accostata ad un progetto familiare stabile, per la consapevolezza che, è cresciuta la dimensione pubblica di mio marito, circostanza che ritengo debba incidere sulle scelte individuali, anche con il ridimensionamento, ove necessario, dei desideri personali: insomma, la sua soggettività messa da parte per non infastidire il marito capo-famiglia.
Di più: ho sempre considerato le conseguenze che le mie eventuali prese di posizione avrebbero potuto generare a carico di mio marito nella sua dimensione extrafamiliare: la rinuncia alla libertà di parola per parare le conseguenze su Silvio.
Poi c’è la rivendicazione di dignità, che a questo punto definirei tardiva, e su cui si sono concentrati i media e che quindi tralascio.
E come ti risponde il marito? In maniera tale che, dicono le cronache, alla Veronica non è poi mica tanto piaciuto.
E c’ha ragione. Nella lettera infatti Silvio rivendica l’orgoglio privato ma non resiste alla dimensione pubblica. (Ricordo ancora quando, da imprenditore, si rifiutava di andare ospite in tv: anche per lui apparire è diventata una droga).
Mette a posto la moglie al suo ruolo di madre: tre figli che hai preparato.
Parla di un semplice periodo di turbolenza e affanno in cui i due non riescono ad ammettere le cose belle fatte insieme, e pare che dica alla moglie che è lei a dimenticarle.
Minimizza: questo periodo finirà, e finirà nella dolcezza come tutte le storie vere.
Attacca la consorte dicendo di amarla nella comprensione e nell’incomprensione. Ovvero: l’ama quando capisce i suoi atteggiamenti e, a che c’è, anche in momenti, magari come questo, in cui non la comprende.
La Veronica lamenta l’offesa alla sua dignità di donna e madre? Eccola servita: custodisco la tua dignità nel mio cuore anche quando dalla mia bocca esce la battuta spensierata (sempre minimizzare, nda), il riferimento galante, la bagattella di un momento. La dignità conservata, fin quasi a dimenticarne il posto, nel cuore. Alla bocca libero sfogo.
Subito dopo arriva il colpo di grazia. Berlusconi tiene a precisare che proposte di matrimonio, no, credimi, non ne ho fatte mai!!! Con le altre donne ha fatto di tutto, ma mai ha chiesto loro di sposarle. COLPO DI TEATRO.
Insomma, la buona Veronica alla fine si è comportata da moglie isterica e disperata che ricorre alle ultime frecce che le sono rimaste nella faretra: una lettera pubblica sul quotidiano nemico del coniuge. E il buon Silvio si è comportato come il classico marito colto in fallo che a parole sembra cedere su tutta la linea ma in realtà, in cuor suo, non si sposta di un millimetro, pur avendo torto marcio, e forte del fatto che la signora ha scatenato un can can per nulla rispetto a molto di più avvenuto in passato.
C’è un problema. Il messaggio mediatico che è passato, ed in questo entrambi sono stati bravissimi, è che lei si è vendicata della disattenzioni coniugali e dei frizzi di Silvio ottenendo che il coniuge tornasse a cenare con lei e i figli per ben due sere consecutive. Lui è passato per il marito innamoratissimo che cede alle pretese della signora che giudica corrette e promette più attenzione.
Ma la guerra dei Berluscones continua tra le mura domestiche, ne sono certo. Lì conta l’intelligenza ed il carattere di entrambi. Ed in ognuno di essi nessuno di questi aspetti fa difetto.

Del matrimonio (parte seconda)

Il matrimonio non è nato con il cattolicesimo.
Se andiamo indietro con la storia, forme di matrimonio moderno le registriamo nelle civiltà classiche dei greci e dei romani.
Per non parlare della leggenda sull’uomo preistorico che sceglieva la propria moglie e la faceva sua a colpi di clava.
Dunque l’essere umano, praticamente da subito, ha ritenuto di regolarizzare un rapporto speciale tra due persone dando vita al concetto di matrimonio, molto debole, però, ancora fra i greci.
Le testimonianze storiche su questi ultimi, sottolineano più in generale la cultura dell’amore fra due persone, senza fissare riti esclusivi e immortali.
Tutto questo per dire che il matrimonio non l’ha inventato il cristianesimo ma i pagani. Esisteva già al tempo delle prime comunità cristiane che lo hanno adottato modificandone le finalità ed il rito.
Il matrimonio romano puntava a perpetuare la famiglia, intesa non come unione tra marito e moglie con figli, bensì comprendeva anche gli schiavi. E se figli naturali non ne venivano, poco male: era facile adottarli, fosse stata anche la famiglia dell’imperatore.
Il cristianesimo aggiorna il rito, e questo è ovvio, visto che cambia la divinità cui tocca benedire l’unione. Il cattolicesimo, poi, come ha ricordato in questi giorni Rocco Bottiglione, stabilisce che la finalità unica del matrimonio è la procreazione. Se non la si prevede o se non vengono figli, il matrimonio non è necessario.
La cosa importante in questa sede è sottolineare che il matrimonio non è un portato di Gesù: gli ebrei si sposavano già. È una necessità sentita dall’uomo che l’ha regolato secondo le esigenze della comunità. In ogni caso storico, applicando regole più larghe di quelle cattoliche. Mi viene da dire che Gesù c’entri poco col matrimonio, visto che ha tolto i suoi discepoli alla famiglie che avevano costituito per farne i suoi apostoli. È la sua Chiesa che ha sentito l’esigenza di avere proprie regole in materia. Regole diverse da quelle fin lì applicate dalle comunità in cui cresceva il seme cristiano.
Ciò detto, dato che nessuno può vantare nemmeno l’esclusività storica in tema di matrimonio, ritengo che anche la Repubblica Italiana possa avere regole proprie in tema di matrimonio senza prenderle in prestito da una fede religiosa. D’altronde è già così. In Italia è previsto il divorzio che la Chiesa non ammette.
Ad uno stato laico serve regolare il matrimonio? Ritengo di sì. Quando una coppia decide di vivere insieme, possibilmente per sempre ed in maniera esclusiva, si istaurano dinamiche sociali con conseguenze effettive su tutta la loro comunità di appartenenza ed è giusto che si riconosca a questo nuovo nucleo sociale una propria soggettività diversa da quelle dei nuclei di provenienza. Nuclei che possiamo chiamare famiglia. Lo Stato ha il diritto di definire la composizione di questo nucleo, prevedendo i doveri che il nuovo soggetto ha verso la più ampia comunità statale e i diritti che può vantare rispetto alla stessa comunità. Con ciò prevedendo eventuali nuovi diritti e doveri nel caso in cui il nucleo si allarghi a seguito della nascita di nuovi componenti generati dal nucleo stesso. – Cerco di utilizzare nuove parole per non cadere io e voi in pensieri pregiudizievoli – Lo Stato deve indicare quali sono i diritti e i doveri di un nucleo che non procrei e quelli di un nucleo che procrei. Senza ovviamente indagare sul perché non avvenga la procreazione. Lo dico perché chi decide di avere figli rende comunque un servizio alla comunità statale cui assicura un futuro e perché chi genera mette al mondo creature indifese che, per almeno un ventennio, saranno un costo per i genitori e non contribuiranno certo al sostentamento del nucleo di appartenenza. Tocca allo Stato decidere se favorire la genitorialità oppure no. In entrambi i casi i nuclei con figli dovranno avere diritti e doveri diversi rispetto a quelli senza figli.
Se concordiamo sul fatto che questa è l’unica distinzione che lo Stato deve fare fra i vari nuclei, cioè, ripeto, quelli con figli e quelli senza figli, prendendo in considerazione questi ultimi, lo Stato non dovrà porsi la domanda del perché non generino prole. Non sono affari che lo riguardano. I nuclei senza figli sono fra di loro con eguali diritti. E potranno essere composti da singoli di sesso diverso o dello steso sesso.
Tali nuclei non è detto che si creino per amore. Se fissiamo con precisione e certezza i diritti e i doveri, tali nuclei potranno essere composti anche da persone che per convenienza scelgono la convivenza, oppure per semplice affetto.
Faccio un esempio. Famiglia numerosa, sei figli. Quattro si sposano, due no e rimangono a vivere con i genitori. Abbiamo così cinque diverse famiglie: quella originaria oramai ridotta ai genitori e a due dei sei figli; e le altre quattro famiglie cui hanno dato vita i figli che si sono sposati. Nella mia visione la prima costituisce un nucleo con la stessa soggettività di ognuno delle altre quattro. Attualmente, relativamente agli anziani genitori, i sei figli hanno tutti gli stessi diritti sia mentre sono in vita che dopo la loro morte. Arrivando al paradosso che se i genitori con i due figli hanno dato vita ad un loro patrimonio, questo, alla morte dei genitori va diviso coi quattro che si sono sposati e che non hanno contribuito a creare quel patrimonio.
Non solo. Morti i genitori, rimangono due figli, fra di loro fratelli o sorelle e quindi dello stesso sesso. Rispetto a ognuno di loro, i fratelli sposati hanno eguali diritti. Se i nubili o celibi costituiscono un proprio patrimonio, alla morte di uno dei due gli altri ne hanno diritto, pur non avendovi contribuito da vivi.
Il diritto di famiglia va rivisto. E deve prevedere un’idea repubblicana della famiglia realizzando più giustizia.
I due fratelli o le due sorelle del mio esempio, devono potersi registrare come famiglia, al pari di una coppia composta da marito e moglie. Guarda un po’, una coppia omosessuale. Vuoi vedere che se ci togliamo il prosciutto dagli occhi e guardiamo ai singoli casi ci rendiamo conto che chi è contrario ai pacs, che sono niente rispetto alla mia idea, lo fa solo per ignoranza e insipienza, perché si rifiuta di guardare alla realtà italiana di oggi?
E chi non vuol guardare oltre il proprio naso non merita di decidere del destino altrui.
Male hanno fatto quei partiti che hanno portato in parlamento dei veri ciechi, fornendoli di un potere che non meritano.

30.1.07

Del matrimonio

Premessa. Sono felicemente sposato. Per me il matrimonio altro non è stato che una festa con parenti e amici, uno dei tanti momenti vissuti insieme alla donna con cui penso di passare insieme quantomeno il futuro prossimo. Detto questo,


…qualche riflessione nel secondo millennio sull’istituto del matrimonio va fatta.
Parole in libertà.
Partiamo dal fatto che il matrimonio è un contratto. Lo dice anche la legge. La prima riflessione che mi viene in mente è che ogni contratto per essere valido bisogna che sia sottoscritto da contraenti nel pieno possesso delle loro facoltà. Al contrario invece il matrimonio si basa sul principio opposto. Si sposa chi è innamorato (a meno di non essere costretto, ma questa è un’altra storia). E l’amore non è certo razionalità. Anzi, il suo contrario. Obnubila la ragione. Dunque, chi si sposa, non è nel pieno delle sue facoltà mentali. Questo è indubitabile. Nessuno può smentirmi. E d’altronde, chi, sano di mente, rinuncerebbe alla libertà di frequentare chi vuole senza render conto a nessuno? Non è forse la guerra che ci contrappone ai nostri genitori negli anni dell’adolescenza? Chi mai rinuncerebbe alla libertà di rientrare a casa quando gli pare e piace, dopo una serata di divertimento? Solo chi non tiene a questa libertà. O alla libertà di decidere da solo delle propria vita. Ognuno di voi potrebbe allungare la lista di queste rinunce che si fanno quando si decide di sposarsi.
Una volta un amico, sintetizzando, mi ha detto che il matrimonio è il modo per risolvere insieme problemi che altrimenti…non avresti!!! Ha perfettamente ragione.
Ritengo si possa dire che il matrimonio è contro natura. La natura umana è infatti la libertà, l’indipendenza, l’affermazione di sé stesso, non certo la propria mortificazione a vantaggio di un altro. Se un genitore ci costringe a stare in casa, magari con la forza, minacciamo la denuncia per sequestro di persona. Il coniuge ottiene lo stesso risultato di costringerci a casa senza che debba ricorrere all’uso della forza e senza che noi si pensi a denunciarlo. Non siamo forse stati privati della stessa libertà? Solo da persone diverse, verso le quali siamo disposti in maniera diversa.
Questo è un post contro l’amore? No. Questo è un post che vuole riflettere sul matrimonio in quanto istituzione. Accettiamo che chi contrae matrimonio lo fa perché spinto da una pulsione irrazionale come l’amore. Vorrei vedere come si comporterebbe la Corte Costituzionale davanti al ricorso di un bravo avvocato basato sulla testi che ad una coppia indefinita deve essere riconosciuto il divorzio perché il contratto matrimoniale è stato stipulato quando uno o entrambi i coniugi, in quanto innamorati, non erano nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali.
Tornerò prossimamente con maggiore serietà sul tema del matrimonio.

27.1.07

A proposito di Vicenza

L’Italia alle prese con l’allargamento della base statunitense di Vicenza.
Sono contrario.
Sono contrario a che gli Stati Uniti abbiano proprie basi sul territorio italiano. Esse sono il retaggio della seconda guerra mondiale e il sistema degli USA per il mantenimento del proprio Impero.
Le basi USA in Italia, ricordiamolo, non fanno gli interessi del popolo italiano o di quelli europei, bensì agiscono nell’interesse del popolo americano. E se questo non dovesse coincidere con il nostro interesse? Tutte le grandi nazioni hanno una politica estera caratterizzata da interessi propri da difendere, spesso in concorrenza con quelli di altri paesi. L’Italia su questo è sempre stata timida, ma è ora che anche noi riconosciamo la necessità di caratterizzare la nostra politica internazionale anche a tutela di convenienze del nostro paese o quantomeno dell’Europa che stiamo faticosamente contribuendo a costruire.
Detto questo c’è un altro motivo di fondo per essere contrari al mantenimento di basi USA sul nostro territorio nazionale. Gli USA ci consentirebbero di costruire basi italiane nel loro territorio? La risposta evidentemente è no a riprova della mancanza di reciprocità fra noi e gli Stati Uniti.
Io propongo che le basi USA, se strategiche nella difesa dell’Occidente, siano trasformate in basi NATO. E propongo anche una revisione dei trattati NATO così che ogni alleato abbia gli stessi diritti degli altri. Dopo di chè l’Europa si doti di un esercito che possa fare a meno del sostegno USA per la soluzione delle controversie internazionali, così da smontare l’imperialismo americano, tale anche perché occupa spazi che l’Europa non intende coprire. Dopo la caduta dell’URSS gli USA sono rimasti l’unica superpotenza. Ci si attendeva una crescita concorrenziale della UE, che non è arrivata e che non sembra voler arrivare. Continuando così, la rinata Russia di Putin, tornerà concorrenziale usando l’arma naturale delle risorse energetiche di cui dispone e di cui l’Occidente ha maledettamente bisogno. La UE, unitariamente, deve liberarsi da questa dipendenza sviluppando fonti energetiche alternative a partire dal sole (ne va della sua indipendenza) e deve avere una propria politica internazionale sostenuta da un adeguato apparato militare. Solo così lo strapotere USA non avrà più senso. Nel frattempo preoccupiamoci di smobilitare le basi USA o di passarle sotto comando NATO con rinnovato spirito alleato.

Imperialismo americano

oSono un grande appassionato di storia e divoratore di documentari storici.
Ho potuto notare come i più recenti made in USA abbiano spesso come argomento l’Impero Romano, protagonista anche di film e fiction televisive statunitensi.
La spiegazione c’è. Gli Usa oggi si sentono un Impero. Lo scrivono alcuni scrittori americani, analizzando le caratteristiche di questo impero universale che non ha eguali nella storia e che lontanamente somiglia a quello romano.
C’è una scena nel tvmovie The West Wing in cui il Presidente degli Stati Uniti, informato che un cittadino americano è stato rapito in qualche paese sperduto dell’Oriente, sbotta gridando che ai tempi dell’Impero Romano, ai cittadini di Roma bastava dire civis romanus sum perché non gli fosse torto un capello, più paura della reazione che per rispetto, aggiungo io. L’aneddoto è vero, e che venga messo in bocca ad un attore che impersona un presidente per giunta Democratico la dice lunga su come gli americani si sentano oggi il nuovo impero.
La citazione di quello romano deriva probabilmente dal fatto che l’Impero di Roma fu ovunque civilizzatore e lasciò ampio spazio d’autonomia alle province che governava, rispettandone i costumi e le tradizioni. L’Impero USA è formato da una serie di stati che, come dimostrato dall’amministrazione Bush, possono non condividere la politica USA, magari la criticano pure ma non minacciano certo di imbracciare le armi per impedirla.
L’attacco all’Iraq ne è la prova. Giustificato da due enormi bufale (inesistenti rapporti con Bin Laden e presenza di armi di distruzione di massa) che si sapeva esser tali per le relazioni degli ispettori dell’ONU, ha trovato fieramente contrari Francia e Germania. Con Chirac, che in Iraq aveva anche da difendere interessi nazionali, lo scontro più duro. Ma al massimo sono volate parole forti da ambo le parti.
Gli USA possono fare nel mondo e del mondo quel che vogliono e nessuno glielo impedisce. D’altronde sarebbe impossibile visto che dislocano proprie basi sul territorio europeo con tanto di armi nucleari: e non succede il contrario. Gli USA conoscono ogni avvallamento dell’Europa. Noi degli USA nulla. Hanno i loro agenti segreti nei nostri paesi. Di nostri da loro non se ne sentono. I loro sistemi informatici sono tali che certamente leggeranno questo pezzo mentre i lettori che vorrei avere no. Il loro imperialismo ci lascia la possibilità di crederci indipendenti e autonomi. Ed invece lo siamo meno di quanto crediamo.
Via le basi USA dall’Europa. Riconvertiamole in basi NATO e rivediamo i trattati così che ogni alleato abbia pari dignità.
L’Europa recuperi la sua indipendenza ed il suo ruolo centrale. Con gli USA partenership e alleanza, no sudditanza.

Hic manebimus optime

Massimo D’Alema è arrivato a minacciare le dimissioni pur di spingere i tre ministri di Rifondazione, PdCI e Verdi a votare il decreto di rifinanziamento della missione in Afganistan.
Nel calderone dell’informazione, spesso si finisce col trattare alla stessa maniera casi diversi.
L’Afganistan non è l’Iraq.
La missione contro il regime dei talebani nacque come reazione all’11 settembre.
Le prove tuttora concordano sul fatto che, responsabile dell’attentato alle Torri Gemelle, era Al Qaeda, per stessa ammissione, per altro, di questa organizzazione. Un vero e proprio atto di guerra. La base di Osama Bin Laden era in Afganistan protetta dal regime dei talebani. Per reazione, ma anche per prevenzione verso attacchi futuri, gli Stati Uniti hanno deciso unilateralmente di invadere questo paese. Il trattato NATO prevede il sostegno degli alleati quando uno dei paesi membri è vittima di un atto bellicoso. Ciò bastava, dunque, a legittimare l’intervento italiano. In più è invece arrivato un mandato ONU.
Per l’IRAQ invece, gli Stati Uniti hanno compiuto, con il Regno Unito, un attacco proditorio basato su due menzogne: la presenza di armi di distruzioni di massa in possesso del regime iracheno e la collaborazione fra quest’ultimo e Al Qaeda, mentre invece gli obbiettivi delle due entità erano se non altro concorrenziali.
Dall’Iraq, dove siamo intervenuti come forza di occupazione e non nel frangente della guerra, ci siamo ritirati e la pratica, diciamo, è chiusa.
L’Afganistan è invece un capitolo aperto. E tale deve ancora rimanere. Anzi. Il regime talebano è stato rovesciato ma i talebani sono ancora attivi su larga parte del territorio afgano. Bisogna combatterli con maggiore decisione, come chiedono gli USA, ed arrivare alla loro sconfitta definitiva, realizzando per la prima volta l’obbiettivo di un governo di Kabul che controlli il 100% del suo territorio e non soltanto una parte. Questo deve essere il sostegno al governo Karzai, anche con mezzi militari, essendo ancora necessari. Ben venga un maggiore impegno politico e diplomatico se questo può agevolare il processo di costruzione di questa novità statale.
Ancora una volta la politica estera italiana tiene alto il profilo del nostro paese. Peccato per lo scivolone di Vicenza.

22.1.07

Oltre il Sol dell'Avvenire

Massimo D’Alema, intervenendo all’assemblea dei segretari di sezione dei DS, ha detto che bisogna andare oltre il socialismo, ricordando che l’approdo a questa corrente politico-culturale, per l’attuale gruppo dirigente dei DS è complessivamente recente. E c’ha ragione, visto che i soggetti in questione provengono dal PCI, e che, aderendo all’internazionale socialista dopo la fine del PSI, hanno comunque sempre avuto difficoltà a dirsi socialisti italiani, al massimo socialisti europei, come si espresse lo stesso D’Alema, anni addietro.
Le parole di D’Alema sono state confermate oggi, nel corso di un’intervista ad un quotidiano, dal deputato Latorre, fedelissimo del ministro degli Esteri.
Perché sono importanti queste parole? Perché potrebbero semplificare la strada verso il Partito Democratico. Ancora Fassino sostiene che la nuova formazione politica debba far parte del Partito Socialista Europeo. Collocazione internazionale inaccettabile per la Margherita e per molti che al PD guardano con attenzione e speranza ma che non sono né vogliono dirsi socialisti, nemmeno in Europa. D’altronde, l’idea di Rutelli è quella di dar vita ad una sorta di Internazionale Democratica da fondare insieme ai Democratici americani. Sarebbe la prima formazione politica globale nella storia. I Democratici americani infatti, intrattengono rapporti con l’Internazionale Socialista ma non intendono farne parte. Dirsi socialista negli USA è fuori dal mondo.
La posizione di D’Alema accorcia le distanze e suona come un rimprovero nei confronti di quei diessini come Mussi che non vogliono smettere di dirsi socialisti senza aver mai cominciato a farlo.
Ha rincarato la dose Latorre aggiungendo che se qualcuno nel PD non vuole starci, libero di farlo ma il nuovo partito dovrà comunque vedere la luce.
Latorre ha poi ricordato che la linea politica che verrà fissata dalla Margherita al prossimo congresso prevede per il PD rapporti col socialismo europeo. Sia ben inteso: rapporti con e non ingresso. Se son rose fioriranno. Il debutto della nuova forza politica dovrebbe avvenire alle prossime elezioni europee della primavera 2009. C’è il tempo perché DS e Margherita facciano ulteriori passi avanti l’uno verso l’altra tenendo presente che dal punto in cui si incontreranno dipenderà l’ulteriore adesione a questo soggetto di cittadini singoli ed organizzati ai quali per il momento non rimane che attendere speranzosi.